Ormai è chiaro: il futuro del lavoro è in remoto.

I primi segni già c’erano da tempo.

E la recente pandemia, così come ogni crisi e cambiamento repentino, ci ha proiettato nel futuro, accelerando un fenomeno già in atto.

A cominciare da Google a Twitter, le realtà più innovative consentono ormai ai propri dipendenti di lavorare da casa.

E questo cambiamento non è temporaneo: i loro dipendenti potranno lavorare in remoto per sempre.

Non si tratta solo di un fenomeno statunitense.

Persino in Italia, paese in cui la fiducia nei confronti dei lavoratori è storicamente limitata, e in cui l’impatto personale si misura più in ore lavorate che nei risultati apportati, ha sdoganato lo “Smart working”.

Addirittura nella pubblica amministrazione.

Quando questa pandemia finirà, ci troveremo in un mondo nuovo.

Ci saranno posti di lavoro che faranno marcia indietro, tornando a modalità lavorative più tradizionali, e posti che seguiranno la strada delle big tech statunitensi.

Chi farà marcia indietro sarà chi ha una cultura lavorativa legata al controllo e all’assenza di valutazione della performance.

Il che riguarda il grosso dei settori pubblici del nostro paese.

I privati si troveranno invece a dovere offrire condizioni di lavoro migliori, più flessibili, e andranno verso modelli ibridi, di parziale lavoro in ufficio e a casa.

L’Italia potrebbe metterci più di altri paesi a cambiare, ma la strada è ormai segnata.

Questo fenomeno ha degli enormi impatti su luoghi storicamente non al centro delle principali attività commerciali, formative e finanziarie, sulla struttura delle città, e rappresenta un’opportunità unica per la Sardegna.

La nostra isola ha infatti finalmente la possibilità di valorizzare il proprio patrimonio ambientale e alimentare e il proprio clima unico.

E può farlo sul contesto internazionale.

Le vere opportunità non hanno niente a che vedere col “South working”, termine che si riferisce a chi torna a casa dalle grandi città italiane per lavorare dal sud, dove ha i propri amici e parenti.

Questo è un fenomeno residuale e temporaneo, in quanto influenzato da un’Italia che vorrà tornare al consueto modo di lavorare, prima di arrendersi all’idea di come la competitività internazionale passi per un lavoro veramente in remoto.

Le vere opportunità sono altre, e sono due.

La prima è la possibilità di attrarre lavoratori internazionali, magari con famiglie al seguito, ormai stufi di vivere in metropoli sovrappopolate, come Londra in Inghilterra.

La seconda è legata alla possibilità per i sardi, e soprattutto quelli che lavorano in settori tecnologici, di aprirsi ai mercati del lavoro stranieri.

Questo approccio avrebbe il vantaggio di limitare lo spopolamento della nostra terra, creare competenze diffuse e attrarne di nuove.

E, come ogni processo di cambiamento, va incontro ad alcune sfide,  in primis costituite da lingua e trasporti, nonché dal necessario sostegno istituzionale nel posizionare le Sardegna come un paese di talenti e di bellezze, in cui abbia senso vivere.

Cosa implicano queste due opportunità?

Partiamo dalla prima.

Questa implica l’identificazione di un target potenzialmente interessato a trasferirsi “al caldo“, quantomeno per qualche mese.

Probabilmente rivolgendosi a persone che vivono in grandi città, lavorano nel terziario e in aziende con forte “empowerment”, a cominciare dal settore tecnologico.

Serve qualcuno in grado di parlare la loro lingua e capirne i bisogni, supportandoli nel trasferimento e nel soggiorno.

L’orizzonte temporale è rilevante: una durata di quantomeno qualche mese sarebbe necessaria, per dare ai visitatori gli strumenti per capire se possa avere senso rimanere di più.

E in parallelo creando le condizioni per un trasferimento più duraturo.

Non ci si dovrebbe limitare unicamente all’estate: l’autunno e l’inverno mite sardo è altrettanto attraente per chi vive al nord, cosa che noi sardi spesso non realizziamo.

Potrebbe avrebbe senso partire da chi è già stato in Sardegna, per poi estendersi verso nuovi target.

Sarebbe auspicabile un’iniziativa prettamente privata, che parta dall’individuazione dei bisogni di mercato, prima ancora di preoccuparsi della disponibilità di immobili che sicuramente non mancano.

Un sostegno pubblico sarebbe auspicabile nel medio termine, con attività di promozione territoriale, di potenziamento dei trasporti e di insegnamento dell’inglese.

La seconda opportunità si riferisce invece alla promozione dei lavoratori sardi all’estero.

La priorità sarebbe quella di sormontare un primo e grande scoglio: la conoscenza dell’inglese.

In mancanza di questo, sarebbe difficile estendere i ragionamenti al di là del “South working” e renderebbe marginali i potenziali effetti sul territorio della nostra isola.

Si può pensare a un’iniziativa pubblica, per esempio con la promozione dei nostri laureati attraverso partnership tra università e grandi aziende.

E di marketing dell’isola come luogo di competenze forti.

E sarebbe allo stesso modo auspicabile un’iniziativa privata: istituzioni formative private potrebbero muoversi verso modelli integrati, in cui si occupino non solo di educazione, ma anche del piazzamento dei propri studenti sul mercato del lavoro, con evidenti benefici per il proprio conto economico e per i loro candidati (si veda cosa fa Strive School con i propri sviluppatori), ma che si potrebbe concretizzare anche in più semplici aziende di selezione del personale.

In sintesi, stiamo assistendo a dei cambiamenti epocali, portatori di grandi sfide e opportunità.

E la Sardegna ha la possibilità unica di trarne vantaggio, posizionandosi sui mercati internazionali come polo di attrazione di talenti e fornitore di personale qualificato.

Non facciamoci sfuggire questa opportunità.

Livio Marcheschi
Sardo, vive a Berlino, dove si occupa di creazione di prodotto per aziende tecnologiche.